Lamento di un servo ad un Santo crocifisso

Un servu, tempu fa, di chista piazza
cussì priàva a Cristu e nci dicìa:
“Signuri ‘u me patruni mi strapazza,
mi tratta comu un cani pi la via,
tuttu mi pigghia cu la so’ manazza
la vita dici chi è mancu la mia.

Si jeu mi lagnu cchiù peju m’amminazza
chi ferri mi castja a prigiunia.
Undì jò mo ti prejiu ‘sta malarazza
distruggimmilla Tu, Cristu, pi mmia
distruggimmilla Tu, Cristu, pi mmia”.

“E tu forsi chi hai ciunchi li vrazza,
oppuru ll’ha ‘nchiovati com’a mmia?
Cu voli la giustizia si la fazza
non speri ch’autru la fazza pe ttia.
Si tu si omu e non si testa pazza
metti a profittu ‘sta sintenzia mia.
Jò non sarrìa supra sta cruciazza
s’avissi fattu quantu dicu a ttia!”

Lionardo Vigo – 1857

 

Approfondimento sul testo originario e sulle versioni successive:
http://www.irsap-agrigentum.it/lionardo_vigo_un_senvu.html

Si parte. Ragioni sociali ed economiche della partenza dal Meridione

Le ragioni di fondo, che determinarono l’avvio delle grandi migrazioni, sono complesse ed articolate e si possono riassumere in tre grandi motivazioni. La prima riguardava l’aspetto economico ovvero l’enorme indigenza e povertà in cui versavano le popolazioni meridionali subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e, con l’inizio degli anni Cinquanta, la differenza economica e occupazionale rispetto al Nord. La seconda, di tipo demografico e legislativo, interessava l’enorme sovrappopolazione delle campagne meridionali e la decisione del partito egemone al governo, la Democrazia Cristiana, di risolvere il problema con la pianificazione dell’emigrazione di massa. La terza, di tipo politico e culturale, era la diretta conseguenza della sconfitta delle lotte contadine e della sistematica esclusione dei suoi protagonisti dalla concessione delle terre e, più in generale, del sostanziale fallimento della riforma agraria, per cui i Meridionali furono costretti a ricominciare altrove.

Tratto da Candido N. (2017), “I Migranti Meridionali nel Nord italia, dal dopoguerra ad oggi“, p. 43

 

L’arrivo nella nebbia: tra accoglienza e discriminazione

Clizia
29 anni di Casoria

«Andando a lavorare in fabbrica qui erano tutti settentrionali, cioè erano tutti dello stesso paese, tutti si conoscevano fra loro, e io ero la prima meridionale che andava a lavorare lì. Dove lavoro ancora adesso. I primi giorni per me sono stati terribili. Perché anche come insegnarmi a lavorare, come si faceva, quasi come se chissà avessi qualche malattia addosso, non lo so, avevano persino paura di avvicinarsi. E per me è stato pure brutto, una brutta… Bruttissimo. Fra di loro sì, forse perché si conoscevano da anni, erano anni che lavoravano insieme, questo non lo so, però io essendo una meridionale non legavano proprio fin dal primo giorno che ci sono andata. Facevamo come attualmente facciamo cuscini per auto, cuscini, sedili. Io avevo sempre un certo timore a chiamare qualcuno, come si fa questo? perché anche la caposquadra metteva lì un lavoro e lasciava fare. Se una non lo sa fare bisogna starci insieme a insegnarci come lo si fa, no? E io avevo timore a chiedere. Io sono proprio un tipo per me stessa che piuttosto di chiedere una cosa anche che sbaglio me la faccio da sola. Però bisognerebbe forse chiedere. E rispondevano con un sì o con un no piuttosto seccate. Come per dire “non so,” “fai da te,” oppure “non m’interessi, se sbagli o se non sbagli non m’importa niente.” Cioè, c’era una certa alienanza. Fra di loro si capivano e facevano tutto, e te ti lasciavano da parte. Proprio come un muro. Allora.
Sono stata lì alla Pirelli di Brugherio fino a settembre, a settembre del ’62. Poi sono venuta qui a Sesto, alla Sapsa. E qui l’ambiente era più grande, c’era il triplo di persone, era il triplo di dove lavoravo prima, e per me c’erano anche più difficoltà. Sempre per quella cosa lì. Un po’ per il mio carattere che allora era piuttosto chiuso. Anch’io non riuscivo a collegare con le altre. Non lo so, però trovavo sempre un qualcosa che mi piaceva poco. Comunque io quando sono andata a Sesto ho trovato un po’ peggio, eh! Con una persona che son riuscita proprio a legare è stata la Ada; forse perché anche lei erano i primi giorni che lavorava lì ci siamo intese abbastanza bene, non c’era che lei era settentrionale e io meridionale, eravamo uguali. Ma là dentro c’erano sempre facce scure che si rubavano il lavoro una con l’altra. Io a queste cose qui non c’ero abituata. Per lavorare quella li rubava il lavoro a quella! per farlo prima lei; e c’era sempre un litigio dalla mattina a sera per il lavoro. Quella prende il lavoro di quella il suo lavoro più bello, il mio più brutto, insomma c’era sempre… ognuno pensava per sé, non è che facevano un po’ per uno in modo che lavorassero abbastanza bene tutte. Ognuno pensava per suo conto. L’unica che ho trovato veramente umana in Pirelli da allora è proprio la Ada.»

Testimonianza tratta da: Alasia F., Montaldi D. (1975), Corea – inchiesta sugli immigrati, pp. 364-365

Un Due Maggio diverso, lo sciopero al rovescio.

Giosuè
26 anni, calabrese
Il 2 maggio 1955 quaranta disoccupati di Sant’Andrea, abbiamo formato uno sciopero alla rovescia per andare al lavoro di una strada che conduceva dal comune di Sant’Andrea al comune di San Sostene che era interrotta dall’alluvione del 53 che il Genio Civile non voleva deliberare questo lavoro a nessuna ditta. Noi tutti ci siamo riuniti in piazza e siamo partiti, picchi e pala, al mattino alle sette siamo andati sul posto di lavoro affinché qualcuno della Prefettura venisse ad assistere a questo sciopero. Siamo arrivati, abbiamo incominciato a lavorare, a levare le pietre e fare un viottolo per passare almeno a pedoni. Verso le 10 è intervenuta la Legge. C’era il Brigadiere e due carabinieri, e basta per il primo giorno. Ha preso il nome e cognome a tutti e se ne è andato. Noi abbiamo continuato a lavorare fino alle cinque. Il giorno seguente la solita storia. Il terzo giorno è venuta anche la Tenenza dei carabinieri di Soverato, un maresciallo e sei carabinieri con le loro camionette. Stavano sul posto di lavoro prima di noi. Arrivati noi ci hanno fermati con i mitra come se fosse arrivata una banda. Ci hanno chiesto dove andiamo. Noi ci abbiamo risposto: “A lavorare.” La sua risposta: “Favorite sulle camionette.” Noi andavamo in cerca proprio di quello di dare smacco alla Prefettura e ognuno di noi cercava di buttare per primo sulla vettura gli arnesi di lavoro e di prendere posto. Così ci hanno portato in carcere a Catanzaro. Bene che abbiamo fatto 10 giorni di carcere: però il lavoro è andato in vigore che si sono occupati 200 padri di famiglia per un anno, perché poi l’hanno messo sui giornali che ci avevano arrestati. Ma di quelli che siamo stati arrestati nessuno è andato a lavorare, solo che uno e per sette mesi.
Ancora io poi sono stato a casa fando qualche giornata quando la trovavo, che ci avevo il matrimonio prossimo che sposai il 9 agosto del 55. Sposato a spasso sempre che lavoro non ce n’era.
250.000 lire di debiti sulle spalle sono stato costretto dopo tre mesi che ero sposato, lasciare la moglie in Calabria e sono ritornato nuovamente a Milano.
Sono arrivato a Milano il 23 novembre, ho trovato acqua, pioggia, tutti i giorni, giravo bagnato con un ombrello poco buono che mi aveva imprestato un mio amico, per trovar lavoro. Dormire dormivo in pensione da un mio paesano che davo 6.000 lire al mese e ci avevo pure la comodità di farmi da mangiare. Ci avevo tre mesi di pensione che io non potevo pagare e mi trovavo malissimo. Però il padrone di casa è stato così buono che delle sere mi dava anche un piatto di minestra. Così ho trovato lavoro e dopo due mesi e mezzo ho potuto mandargli i primi 5.000 lire alla moglie che stava giù. Io lavoravo senza libri e guadagnavo poco, finché ho trovato una ditta che lavoravo con i libri e che ho avuto la possibilità di dormire sul cantiere e risparmiavo di più.

Tratto da: Alasia F., Montaldi D. (1975), Corea – inchiesta sugli immigrati, pp. 189-190

La situazione del Meridione, una «questione» che viene da lontano

Il sangue è passato ancora,
sopra questa terra amara
La morte si fa destino,
lo sfregio diventa storia
il ferro fuoriesce dal corpo dei padri
davanti agli occhi dei loro figli
piangono senza riuscirci i bambini, nudi
L’Italia si svilupperà con l’arte
della rabbia ed il rancore
saranno cittadini senza nessun onore
saranno terre lontane e lacrime e bastimenti
il modo per dimenticarsi i torti ed il tradimento
per non provare i comandi dei soldati
dentro le nostre case,
gli insulti, i tormenti, le umiliazioni
che entrano nelle ossa
e sarà l’arte di vivere
senza credere più in nessuno
sarà l’arte di imbrogliare
per non coricarsi digiuni
saranno guappi, pettegole, ladri, santi, ruffiani
saranno duchi e cenciosi, preti e ciarlatani
profumi nei palazzi,
sottane e guardinfanti
bassi umidi e scuri,
bocche con l’alito di cipolle
una pizza col nome di regina
di chi fu il nemico di ieri
i nipoti di chi fu Brigante
saranno Carabinieri
sarà una ferita aperta
sotto l’acqua ed il sole,
un corpo che si spegne
senza emanare odore,
un grido senza voce
che va per terre e città,
un tormento senza nome
che la notte viene a trovarti
gente senza pace
troverà le parole giuste
per meglio nascondere
le cose che non vuol dire
sarà allontanarsi sempre
da ciò che tocca il cuore

sarà dimenticarsi l’innocenza,
sarà rendere più duro l’amore
sarà recitare la commedia
per le strade e nei letti
sarà far soffrire l’altro
solo per fargli dispetto
e il freddo scava la coscienza,
l’onestà diventa un capriccio
e per le genti della terra mia
ma io canto, canto, canto
canto per tutti
canto per dare coraggio,
canto per dare speranza
canto per la dignità
che ne abbiamo avuta tanta
canto un canto di uomini
che sono stati
Briganti ! 

Canzone tratta dall’epilogo del Film, Li chiamarono… briganti!, Interpretata da Lina Sastri. Traduzione personale.