L’Imperialismo statunitense in Italia negli anni ’50

L’ingerenza imperialista americana non è certo recente. Già negli anni 50′, in Italia, l’Ambasciatrice statunitense ricattava e ingeriva addirittura nelle elezioni sindacali di fabbrica. Si dovranno aspettare lo Statuto dei lavoratori e gli anni 70′ perchè la democrazia ritorni nelle fabbriche. 

«Insomma, il clima degli anni Cinquanta in FIAT era quello di un universo parallelo dove, sebbene vi fossero taluni vantaggi materiali come un welfare aziendale più ampio e remunerativo, la disciplina e l’organizzazione gerarchica regnavano incontrastate.
Lo scontro tra l’Amministratore Delegato Valletta e la CGIL aveva portato ad un ridimensionamento del sindacato e alla sterilizzazione di qualsiasi dissenso. Esso, tuttavia, fu ottenuto con metodi spregiudicati e spesso illegali: dai licenziamenti per rappresaglia degli attivisti sindacali, alla schedatura sulle preferenze politiche – in collaborazione con le autorità di pubblica sicurezza – degli operai in fabbrica e dei lavoratori nella fase di selezione prima dell’assunzione
. 1
Persino gli Stati Uniti, tramite il loro Ambasciatore in Italia, Clare Boothe Luce, esercitarono una pressione fortissima e inusuale, il dipartimento della Difesa affermò che non sarebbero stati concessi altri contratti alle imprese italiane nelle quali i candidati della CGIL avessero ottenuto più del 50% nelle elezioni delle Commissioni interne.2
I risultati della repressione e delle intimidazioni non tardarono ad arrivare, nelle elezioni del marzo 1955 la CGIL subì un tracollo, passando dal 63,2% dei suffragi del 1954 al 36,7%,3 era la prima volta che scendeva sotto il 50% dalla fine della guerra.4

Tratto da Candido N. (2017), “I Migranti Meridionali nel Nord italia, dal dopoguerra ad oggi“, p. 186

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Note

(1) – Turone S. (1992), Storia del sindacato in Italia, Dal 1943 al crollo del comunismo, Laterza Editore, pp. 182-183

(2) – Ibidem, pp. 186-187

(3) – Berta G. (1998), Conflitto industriale e struttura d’impresa alla Fiat, Bologna, Società editrice il Mulino, p. 111

(4) – Ginsborg P. (2006), Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, op. cit., p. 259

Le migrazioni interne? Favorirono gli scioperi e le lotte!

«Oltre ad un aspetto soggettivo dell’influenza dei migranti meridionali nel Nord vi è un aspetto oggettivo, ovvero le conseguenze che determinarono nel mercato del lavoro. Di certo, le migrazioni Sud-Nord assecondarono una forte domanda di lavoro, ma svolsero anche un ruolo concorrenziale nei confronti della forza-lavoro locale, poiché andavano incontro, maggiormente, alle esigenze produttive. I Meridionali erano giovani e in grado di sostenere i ritmi di lavoro del sistema taylorista, più disponibili al cambiamento e meno costosi, quasi tutti partivano dalla qualifica più bassa. Dal punto di vista delle imprese e del sistema produttivo, perciò, le migrazioni erano economicamente convenienti, anche se non era altrettanto per i lavoratori, meridionali o del Nord. Si creava così un processo di sostituzione di forza locale con quella immigrata e questo è evidente, ad esempio, in Lombardia tra il 1959 e il 1968, dove il tasso di attività della popolazione locale era di circa il 40% e il tasso di attività di quella immigrata del 65-66%. 1
L’effetto che si produceva non era di semplice soddisfacimento delle necessità di domanda di lavoro in eccesso nelle regioni del Nord, ma anche di sostituzione di talune categorie di lavoratori e in determinati settori. I più colpiti furono le donne, il cui tasso di attività passò dal 29,3 % del 1959 al 23,7% del 1968, e gli anziani. In quegli anni, infatti, si assistette sia alla “mascolinizzazione”, soprattutto, nel settore industriale e dei servizi, sia all’espulsione dal mondo del lavoro dei lavoratori con più di cinquant’anni, ritenuti incapaci di reggere agli spossanti ritmi produttivi.2
Se si osserva la distribuzione settoriale degli immigrati nei medesimi anni presi in considerazione, emerge in modo chiaro l’elevata incidenza dell’immigrazione nei settori dell’industria e dei servizi, contemporaneamente, però, si assiste ad una divaricazione crescente delle qualifiche tra impiegati, dirigenti e, in misura minore, operai specializzati e operai semi-qualificati e comuni, con la conseguenza che sempre più spesso si avevano basse qualifiche a causa della situazione contrattuale e non alla reale formazione. Inevitabilmente, quindi, gli addetti alle produzioni, sebbene esercitassero funzioni complesse, ricadevano nelle qualifiche più basse, le quali avevano ormai assunto una connotazione economica e salariale perdendo il loro significato professionale specifico. Ed è a partire da queste condizioni particolari che molti scioperi e proteste avevano al centro la questione della qualifica per gli operai comuni.3
Interessanti, per comprendere le dinamiche che Interessanti, per comprendere le dinamiche che si svilupparono in quegli anni in Italia, sono le osservazioni di Alain Touraine, il quale affermava che l’arrivo di così tanti immigrati in una sola area del Paese creava le condizioni affinché costoro prendessero coscienza di rappresentare una “nuova nazione” in cammino e, con la loro presenza, di produrre il cambiamento dei modelli di relazioni sociali esistenti. I lavoratori immigrati perciò contribuirono, direttamente o indirettamente, a far emergere l’importanza dello sviluppo economico in atto e il ruolo, determinante, che essi svolgevano al suo interno.
Le migrazioni interne italiane, accompagnate da una vasta espansione della domanda di lavoro e da una forte mobilità,
invece di frenare la ripresa della combattività politica e sindacale della classe operaia, la favorirono fornendo una massa di giovani operai immigrati che, in molti casi, ebbero un ruolo di particolare rilievo negli scioperi e nelle manifestazioni politiche di piazza.4
Ciò dipese sia dalla composizione sociale e culturale degli immigrati che spesso avevano già vissuto le lotte per la terra o provenivano da zone dove le ribellioni avevano segnato la memoria collettiva, sia per un processo di adesione ai valori dominanti a livello operaio trovati nelle zone industriali di arrivo.
Essi quindi avevano partecipato non solo per l’immediato ritorno economico e di miglioramento materiale, dentro e fuori la fabbrica, ma perché lottare significava identificarsi, a tutti gli effetti, con il nuovo ambiente urbano-industriale e con la classe lavoratrice locale. Tuttavia, tale scambio, non avvenne in modo unilaterale, perché gli immigrati, da una parte, contribuirono a rilanciare e a sostenere il processo unitario avviato dai sindacati e, dall’altra, con la loro spinta radicale e dal basso innovarono profondamente le modalità di lotta e le strutture organizzative del sindacato».5

Tratto da Candido N. (2017), “I Migranti Meridionali nel Nord italia, dal dopoguerra ad oggi“, pp. 181-183

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Note

1 – Paci M. (1973), Mercato del lavoro e classi sociali in Italia: ricerche sulla composizione del proletariato, op. cit., pp. 129-131

(2) – Ibidem, pp. 132-134

(3) – Ibidem, pp. 136-137

(4) – Touraine A., Management and the Working Class, in «Daedalus», 1964, p. 312. In: Paci M. (1973), Mercato del lavoro e classi sociali in Italia: ricerche sulla composizione del proletariato, op. cit., pp. 73-74

(5) – Ibidem, pp. 74-75

Il Mezzogiorno nella nuova geografia europea delle disuguaglianze

Il Mezzogiorno nella nuova geografia europea delle disuguaglianze

La riapertura del divario riguarda soprattutto i consumi

“Come nel 2016 e nel 2017, anche nel 2018 la crescita del prodotto nel Mezzogiorno è risultata inferiore al resto del Paese, con un ulteriore allargamento del gap di reddito e benessere tra le due aree. Nel 2018 il Sud ha fatto registrare una crescita del PIL appena del +0,6%, rispetto al +1% del 2017. Il dato che emerge è di una ripresa debole, in cui peraltro si allargano i divari di sviluppo tra le aree del Paese. Con la significativa eccezione del 2015, anno segnato da fattori congiunturali positivi e dalla chiusura del ciclo dei fondi europei che ha determinato una modesta ripresa dell’investimento pubblico nell’area, anche nel 2016 e nel 2017 il gap di crescita del Mezzogiorno è stato ampio”.

“In un’Italia, che è tra i paesi più vecchi al mondo, il Mezzogiorno si trova ad affrontare una delle crisi demografiche più profonde e durature tra i paesi del mondo occidentale. Nel corso dei prossimi 50 anni il Sud perderà 5 milioni di residenti e, soprattutto, gran parte delle sue forze generatrici e produttive: -1,2 milioni di giovani e -5,3 milioni di persone in età da lavoro A fronte di un Centro-Nord che, invece, dovrebbe contenere le perdite a 1,5 milioni di residenti. Nel Mezzogiorno, inoltre, sarà decisamente più debole il contributo delle nuove nascite e delle immigrazioni. La conseguenza è il drastico e preoccupante ridimensionamento demografico del Sud, associato all’insostenibile invecchiamento della popolazione, il più alto in Italia e nell’UE.”

SINTESI DEL RAPPORTO 2019 (Pdf) 

Video della Presentazione del Rapporto 2019 presso la Camera dei Deputati

SLIDES DELLA PRESENTAZIONE