Le migrazioni interne? Favorirono gli scioperi e le lotte!

«Oltre ad un aspetto soggettivo dell’influenza dei migranti meridionali nel Nord vi è un aspetto oggettivo, ovvero le conseguenze che determinarono nel mercato del lavoro. Di certo, le migrazioni Sud-Nord assecondarono una forte domanda di lavoro, ma svolsero anche un ruolo concorrenziale nei confronti della forza-lavoro locale, poiché andavano incontro, maggiormente, alle esigenze produttive. I Meridionali erano giovani e in grado di sostenere i ritmi di lavoro del sistema taylorista, più disponibili al cambiamento e meno costosi, quasi tutti partivano dalla qualifica più bassa. Dal punto di vista delle imprese e del sistema produttivo, perciò, le migrazioni erano economicamente convenienti, anche se non era altrettanto per i lavoratori, meridionali o del Nord. Si creava così un processo di sostituzione di forza locale con quella immigrata e questo è evidente, ad esempio, in Lombardia tra il 1959 e il 1968, dove il tasso di attività della popolazione locale era di circa il 40% e il tasso di attività di quella immigrata del 65-66%. 1
L’effetto che si produceva non era di semplice soddisfacimento delle necessità di domanda di lavoro in eccesso nelle regioni del Nord, ma anche di sostituzione di talune categorie di lavoratori e in determinati settori. I più colpiti furono le donne, il cui tasso di attività passò dal 29,3 % del 1959 al 23,7% del 1968, e gli anziani. In quegli anni, infatti, si assistette sia alla “mascolinizzazione”, soprattutto, nel settore industriale e dei servizi, sia all’espulsione dal mondo del lavoro dei lavoratori con più di cinquant’anni, ritenuti incapaci di reggere agli spossanti ritmi produttivi.2
Se si osserva la distribuzione settoriale degli immigrati nei medesimi anni presi in considerazione, emerge in modo chiaro l’elevata incidenza dell’immigrazione nei settori dell’industria e dei servizi, contemporaneamente, però, si assiste ad una divaricazione crescente delle qualifiche tra impiegati, dirigenti e, in misura minore, operai specializzati e operai semi-qualificati e comuni, con la conseguenza che sempre più spesso si avevano basse qualifiche a causa della situazione contrattuale e non alla reale formazione. Inevitabilmente, quindi, gli addetti alle produzioni, sebbene esercitassero funzioni complesse, ricadevano nelle qualifiche più basse, le quali avevano ormai assunto una connotazione economica e salariale perdendo il loro significato professionale specifico. Ed è a partire da queste condizioni particolari che molti scioperi e proteste avevano al centro la questione della qualifica per gli operai comuni.3
Interessanti, per comprendere le dinamiche che Interessanti, per comprendere le dinamiche che si svilupparono in quegli anni in Italia, sono le osservazioni di Alain Touraine, il quale affermava che l’arrivo di così tanti immigrati in una sola area del Paese creava le condizioni affinché costoro prendessero coscienza di rappresentare una “nuova nazione” in cammino e, con la loro presenza, di produrre il cambiamento dei modelli di relazioni sociali esistenti. I lavoratori immigrati perciò contribuirono, direttamente o indirettamente, a far emergere l’importanza dello sviluppo economico in atto e il ruolo, determinante, che essi svolgevano al suo interno.
Le migrazioni interne italiane, accompagnate da una vasta espansione della domanda di lavoro e da una forte mobilità,
invece di frenare la ripresa della combattività politica e sindacale della classe operaia, la favorirono fornendo una massa di giovani operai immigrati che, in molti casi, ebbero un ruolo di particolare rilievo negli scioperi e nelle manifestazioni politiche di piazza.4
Ciò dipese sia dalla composizione sociale e culturale degli immigrati che spesso avevano già vissuto le lotte per la terra o provenivano da zone dove le ribellioni avevano segnato la memoria collettiva, sia per un processo di adesione ai valori dominanti a livello operaio trovati nelle zone industriali di arrivo.
Essi quindi avevano partecipato non solo per l’immediato ritorno economico e di miglioramento materiale, dentro e fuori la fabbrica, ma perché lottare significava identificarsi, a tutti gli effetti, con il nuovo ambiente urbano-industriale e con la classe lavoratrice locale. Tuttavia, tale scambio, non avvenne in modo unilaterale, perché gli immigrati, da una parte, contribuirono a rilanciare e a sostenere il processo unitario avviato dai sindacati e, dall’altra, con la loro spinta radicale e dal basso innovarono profondamente le modalità di lotta e le strutture organizzative del sindacato».5

Tratto da Candido N. (2017), “I Migranti Meridionali nel Nord italia, dal dopoguerra ad oggi“, pp. 181-183

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Note

1 – Paci M. (1973), Mercato del lavoro e classi sociali in Italia: ricerche sulla composizione del proletariato, op. cit., pp. 129-131

(2) – Ibidem, pp. 132-134

(3) – Ibidem, pp. 136-137

(4) – Touraine A., Management and the Working Class, in «Daedalus», 1964, p. 312. In: Paci M. (1973), Mercato del lavoro e classi sociali in Italia: ricerche sulla composizione del proletariato, op. cit., pp. 73-74

(5) – Ibidem, pp. 74-75

Il Mezzogiorno nella nuova geografia europea delle disuguaglianze

Il Mezzogiorno nella nuova geografia europea delle disuguaglianze

La riapertura del divario riguarda soprattutto i consumi

“Come nel 2016 e nel 2017, anche nel 2018 la crescita del prodotto nel Mezzogiorno è risultata inferiore al resto del Paese, con un ulteriore allargamento del gap di reddito e benessere tra le due aree. Nel 2018 il Sud ha fatto registrare una crescita del PIL appena del +0,6%, rispetto al +1% del 2017. Il dato che emerge è di una ripresa debole, in cui peraltro si allargano i divari di sviluppo tra le aree del Paese. Con la significativa eccezione del 2015, anno segnato da fattori congiunturali positivi e dalla chiusura del ciclo dei fondi europei che ha determinato una modesta ripresa dell’investimento pubblico nell’area, anche nel 2016 e nel 2017 il gap di crescita del Mezzogiorno è stato ampio”.

“In un’Italia, che è tra i paesi più vecchi al mondo, il Mezzogiorno si trova ad affrontare una delle crisi demografiche più profonde e durature tra i paesi del mondo occidentale. Nel corso dei prossimi 50 anni il Sud perderà 5 milioni di residenti e, soprattutto, gran parte delle sue forze generatrici e produttive: -1,2 milioni di giovani e -5,3 milioni di persone in età da lavoro A fronte di un Centro-Nord che, invece, dovrebbe contenere le perdite a 1,5 milioni di residenti. Nel Mezzogiorno, inoltre, sarà decisamente più debole il contributo delle nuove nascite e delle immigrazioni. La conseguenza è il drastico e preoccupante ridimensionamento demografico del Sud, associato all’insostenibile invecchiamento della popolazione, il più alto in Italia e nell’UE.”

SINTESI DEL RAPPORTO 2019 (Pdf) 

Video della Presentazione del Rapporto 2019 presso la Camera dei Deputati

SLIDES DELLA PRESENTAZIONE

SINTESI RAPPORTO SVIMEZ 2018

L’ECONOMIA E LA SOCIETÀ DEL MEZZOGIORNO

Il Rapporto SVIMEZ, a 44 anni dalla sua prima edizione cambia il titolo introducendo un esplicito riferimento alla “società”. Dopo una prima parte del Rapporto sulla lettura delle principali variabili macroeconomiche in un fase caratterizzata da una profonda incertezza, la seconda parte è dedicata al tema delle disuguaglianze e dei diritti di cittadinanza; e la terza a un approfondimento delle politiche per il Sud.

SINTESI DEL RAPPORTO 2018 (Pdf)

Video della Presentazione del Rapporto 2018 presso la Camera dei Deputati

Il Mezzogiorno sta morendo, ma le ferrovie si organizzano per farci scappare

Sebbene vi siano segnali positivi di crescita economica e dell’aumento delle esportazioni nell’ultimo triennio il PIL rimane inferiore del 10% al 2007, ovvero rispetto all’inizio della crisi. Un dato che sintetizza una situazione difficile e contraddittoria. Difficile, perché l’economia del Sud ha sofferto maggiormente la crisi rispetto al Centro Nord; contraddittoria perché negli ultimi anni, la crescita è stata uguale o superiore al resto d’Italia. In questo quadro, il dato della disoccupazione nel Mezzogiorno (-310 mila unità rispetto al 2008), in rapporto al Centro Nord (+242 mila unità rispetto al 2008), rivela tutta la drammaticità della situazione sociale. La povertà e lo svuotamento del Meridione, pertanto, diventano conseguenze inevitabili. I poveri nel 2017 arrivano all’11,4% della popolazione (1,6 in più del 2016) e l’emigrazione (verso il Nord Italia o l’estero) rimane una costante negativa che, ormai regolarmente, impoverisce il Sud di giovani e di “intelligenze” vitali per lo sviluppo di qualsiasi territorio.

Il saldo migratorio tra il 2002 e il 2016 è impressionante: 783.511, di cui i laureati rappresentano il 27,9% e i giovani il 72,1%. In 14 anni l’equivalente degli abitanti di Napoli hanno lasciato il Sud, senza contare il pendolarismo e le tante forme di emigrazione non rilevate dalle statistiche.

E in futuro sarà ancora peggio. Se, infatti, accostiamo a questi dati quelli delle nascite non si può che constatare che il Mezzogiorno sta morendo. Una proiezione demografica dei trend attuali evidenzia che nel 2065 ci vivranno 5.658.382 persone in meno, compensato solo in piccola parte dal saldo migratorio. Un’ecatombe nazionale che colpirà soprattutto il Meridione e che forse ci dovrebbe indurre a vedere con altri occhi gli stranieri che vogliono venire in Italia e nel Mezzogiorno.

Per approfondimenti qui

 

Chi erano i Migranti Meridionali che si spostavano al Nord?

A Torino, come nel capoluogo ligure, il primo lavoro che i migranti meridionali svolgevano si collocava, in genere, all’interno del campo dell’edilizia, dove effettivamente esisteva un’oggettiva carenza organizzativa delle forze sindacali dovuta […] alla dispersione e il frazionamento dei lavoratori in centinaia di piccoli e grandi cantieri e […] lo sforzo che i sindacati mettevano in opera era inadeguato.

[…] Il numero dei Meridionali iscritti alle organizzazioni dei lavoratori nel paese di origine era doppio rispetto a quelli iscritti a Torino. Addirittura, molti di coloro che non avevano rinnovato la tessera erano stati degli attivisti o impegnati in prima persona nell’organizzare numerose lotte sindacali. Del resto, la maggior parte provenivano da zone rurali e ancora gravava su di loro la sconfitta delle lotte per la riforma agraria.
Quel vasto movimento che, tra il 1943 e il 1953, aveva dato vita a occupazioni, scioperi a rovescio, manifestazioni di piazza, mobilitazioni vastissime durate per mesi, prima era stato attaccato tramite la repressione poliziesca, poi minato al suo interno con una parziale redistribuzione delle terre ed infine disperso costringendo tutti i protagonisti di quella stagione di lotte ad emigrare. Certo, erano stati sconfitti, ma rimanevano intimamente ancora legati a quelle battaglie passate, talvolta le ricordavano in modo epico, sapevano di resistenza e di entusiasmo, quasi di memoria collettiva condivisa, ma di sicuro erano lontanissime dalle loro prime esperienze torinesi. Molti ricordavano con orgoglio la combattività di allora, gli scioperi più duri, gli scontri con la polizia, i compagni feriti o, a volte, numero dei Meridionali iscritti alle organizzazioni dei lavoratori nel paese di origine, doppio rispetto a quelli iscritti a Torino. Addirittura, molti di coloro che non avevano rinnovato la tessera erano stati degli attivisti o impegnati in prima persona nell’organizzare numerose lotte sindacali.
Del resto, la maggior parte provenivano da zone rurali e ancora gravava su di loro la sconfitta delle lotte per la riforma agraria. Quel vasto movimento che, tra il 1943 e il 1953, aveva dato vita a occupazioni, scioperi a rovescio, manifestazioni di piazza, mobilitazioni vastissime durate per mesi, prima era stato attaccato tramite la repressione poliziesca, poi minato al suo interno con una parziale redistribuzione delle terre ed infine disperso costringendo tutti i protagonisti di quella stagione di lotte ad emigrare. Certo, erano stati sconfitti, ma rimanevano intimamente ancora legati a quelle battaglie passate, talvolta le ricordavano in modo epico, sapevano di resistenza e di entusiasmo, quasi di memoria collettiva condivisa, ma di sicuro erano lontanissime dalle loro prime esperienze torinesi. Molti ricordavano con orgoglio la combattività di allora, gli scioperi più duri, gli scontri con la polizia, i compagni feriti o, a volte, morti, gli assalti e gli incendi alle caserme, ai municipi, tutto era rievocato fin nei minimi particolari. Insomma, i Meridionali arrivati al Nord era gente semplice e poco scolarizzata, ma temprata dalle esperienze vissute in prima persona, in quel decennio, che aveva visto l’intero Sud sollevarsi e pretendere terra e libertà. La Storia li aveva sconfitti ma, in coloro che avevano vissuto quelle vicende, la voglia di lottare continuava a covare, indomita, come un fuoco pronto a riaccendersi. C’era anche chi diceva, con orgoglio, di essere stato arrestato o d’aver subito un processo, proprio perché portava avanti da protagonista quelle lotte.

Tratto da Candido N. (2017), “I Migranti Meridionali nel Nord italia, dal dopoguerra ad oggi“, pp. 160-161

 

Le organizzazioni sindacali e politiche e i Migranti Meridionali

Le organizzazioni sindacali e politiche quindi rappresentarono, oltre che un mezzo di lotta per tutto il proletariato del Nord, una soluzione sociale e un percorso di affrancamento per i migranti meridionali, i quali si trovarono ad occupare anche nel Settentrione gli strati più miseri e sfruttati della società, sebbene in forme meno dure rispetto ai luoghi di origine. I migranti meridionali, perciò, acquisirono la consapevolezza che per uscire da quella situazione e per non arrendersi all’ineluttabilità del proprio destino, dovevano creare le condizioni per un cambiamento radicale della società e questo sarebbe stato possibile solo collettivamente, tramite, appunto, un vasto movimento sociale.
Questo percorso non fu seguito in modo lucido o in maniera consapevole ma, di fatto, i giovani del Sud, da una parte, rappresentarono le avanguardie e le frange più radicali del movimento operaio degli anni Sessanta e Settanta e, dall’altra, il motore della ripresa delle lotte sindacali dopo l’arretramento avvenuto negli anni Cinquanta.
I Meridionali, sebbene non subito né in modo generalizzato, si iscrissero copiosamente ai sindacati più combattivi e alle forze politiche di Sinistra partecipando, in maniera massiccia, agli scioperi e alle esplosioni di rivolta. 
Altrettanto significativa fu la presenza dei lavoratori del Sud in tutti i movimenti, sindacali e politici, nati come espressione delle istanze di base degli operai o al di fuori dei partiti tradizionali che avevano come comune denominatore una radicale trasformazione della società e delle istituzioni.

Tratto da Candido N. (2017), “I Migranti Meridionali nel Nord italia, dal dopoguerra ad oggi“, pp. 156-157

Un povero che accoglie un povero in una città lontana

Nelle migrazioni italiane, avvenute in un sistema sociale dove non esistevano istituzioni pubbliche o enti privati capaci di accompagnare il percorso dei migranti, la famiglia ha avuto un ruolo preponderante e, in qualche misura, escluse anche le organizzazioni collettive più rilevanti, le quali si fermavano di fronte al confine del nucleo familiare. Cionondimeno, la solidarietà tra migranti fu capillare e salvifica per moltissimi di loro, e con l’esplosione dei movimenti sociali e delle lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta, mutò notevolmente anche il rapporto tra i Meridionali e l’immaginario collettivo della società in cui si trovarono a vivere. I giovani e i lavoratori del Sud oltre ad essere in prima linea, portarono in dote ai movimenti di emancipazione, operai e studenteschi, la radicalità derivante dallo sradicamento collettivo che avevano vissuto e la cultura di ribellione delle rivolte contadine e della storia del Mezzogiorno.
Così, Pasquale P. di Cerignola, 33 anni, descriveva l’accoglienza avuta a Milano per qualche mese da parte di un altro meridionale, un povero che accoglie un povero in una città lontana ed, inizialmente, ostile: «Appena arrivato a Milano sono andato a casa di un amico […]. Era una famiglia con otto figli e vivevano al Porto di Mare, e io appena sono arrivato sono andato in quel posto là, e ho pensato che era meglio restare a casa. Era nel ‘52, e compivo gli anni in treno quando sono venuto, facevo 26 anni. Quelli vivevano in 16 metri quadri di spazio: là si cucinava, si dormiva, tutto si faceva, e c’erano tre figlie femmine. Quella brava gente volevano tenermi ancora, ma io stesso ho capito che era impossibile. Alla sera andavo letto bianco e alla mattina mi alzavo nero, perché erano carbonai loro. Erano facchini di stazione; scaricavano il carbone, ma là dentro non avevano come lavarsi. Si lavavano la faccia, le gambe, alla buona, così; ma il carbone va nei pori e ci vuole l’acqua calda, e quando sudavano ci veniva fuori. C’era una branda di un posto e dormivano tre ragazze, 24, 21, 19; dormivano testa e piedi; e la sua madre dormiva su di una trapunta a terra vicino alle figlie. La mamma, poveretta, non dormiva la notte. Aveva cura di coprire le figlie perché faceva caldo e si scoprivano, e li c’eravamo noi uomini, e noi ci teniamo a quella cosa lì. Diceva: “Non importa, io ho cura delle ragazze, dormo di giorno mentre voi lavorate”. Poi c’era un letto matrimoniale che dormivo io, il padre, un momento che mi confondo solo a pensarli… dunque: io, il padre, tre figli maschi e il piccolo. Tutti là di traverso. Poi loro al mattino andavano allo scarico di Porta Genova» (Alasia F., Montaldi D., 1975)

Tratto da Candido N. (2017), “I Migranti Meridionali nel Nord italia, dal dopoguerra ad oggi“, pp. 123-124

 

La vita di un ambulante povero

Ma le storie della “corea” si intrecciavano con le vite e le vicende dei suoi abitanti, spesso provenienti da dimensioni spaziali e abitudini culturali completamente diverse, sebbene accomunati dall’assoluta determinazione di conquistare il proprio piccolo pezzo di felicità e il diritto ad un’esistenza dignitosa.
E’ emblematico lo scontro, con le autorità comunali di Carlo, 22 anni, meridionale, venditore ambulante. Egli voleva proseguire il lavoro del padre che gli garantiva un certo giro di vendite e, come lui, si sentiva perseguitato dai verbali dei vigili urbani che diventarono praticamente la sua ossessione e il simbolo di un’ingiustizia.
Da un mestiere di tipo libero, si reinventò come manovale, venditore volante di fiori, spugnaio, ma le multe si moltiplicarono e, ad un certo punto, divennero insostenibili spogliandolo, oltre che di un introito economico, anche dell’unico mestiere che riteneva di saper fare veramente e perciò della sua dignità di lavoratore e di uomo. E se in teoria il Comune avrebbe dovuto garantirgli un alloggio per le sue condizioni economiche e familiari, in pratica, per avere la casa, dovette occuparne una, illegalmente.
Quella di Carlo, è una storia emblematica, suo malgrado, della difficoltà dei migranti di inserirsi in un sistema di regole che non teneva conto dei nuovi cittadini e delle loro esigenze, la sua richiesta di licenza di ambulante infatti gli era stata rifiutata più volte dal Comune e dal Prefetto, a causa della sua giovane età. La sua testimonianza si concludeva con una frase, drammatica e lucida, che assegnava, in modo tristemente appropriato, un titolo alla sua storia: «La vita di un ambulante povero».

Tratto da Candido N. (2017), “I Migranti Meridionali nel Nord italia, dal dopoguerra ad oggi“, pp. 130-131

I sacrifici dei migranti

Da un punto di vista materiale, come abbiamo visto, le vicissitudini che ogni migrante doveva affrontare erano assai numerose e di non facile soluzione, ma le incombenze dei singoli diventavano ancora più complicate quando si trattava delle famiglie. Abitualmente la moglie e i figli raggiungevano il capofamiglia in un momento successivo, quando egli aveva acquisito una relativa sistemazione, tuttavia creare le condizioni affinché il ricongiungimento fosse possibile in tempi relativamente rapidi, era un’impresa che impegnava tutte le risorse, mentali e materiali, e tale stabilità era relativa e non sempre perdurava nel tempo. Capitava, quindi, che intere famiglie si trovassero ad abitare nelle soffitte, nelle baracche, nelle vecchie caserme, nelle pensioni, nelle “Coree”, negli abituri, in vere e proprie bidonville o, addirittura, che rimanessero senza un tetto. Diversi furono gli interventi pubblici per i contesti più degradati e maggiormente visibili ma, quasi sempre, si trattò di provvedimenti disorganici che portarono alla costruzione di centri residenziali ghettizzanti – spesso in quartieri periferici o in zone urbanistiche già degradate – e con tempi sempre molto dilatati.
Perciò, il più delle volte, le famiglie dovettero fare affidamento esclusivamente sulle proprie risorse e non sempre trovarono alloggi adeguati e dignitosi. «L’immigrato ha in genere una famiglia ed è naturale che desideri portarla con sé, di conseguenza fin dai primi giorni ci mettiamo alla ricerca di un alloggio. A Torino, come tutti sanno molto bene, gli alloggi ci sono, ma gli operai immigrati non riescono ad occuparli.
Anche i motivi di questo fatto sono da tutti risaputi: oltre a non essere graditi ai padroni di casa perché siamo Meridionali ci sono un sacco di altri problemi tra cui prezzi da strozzini, cauzioni che non sappiamo come pagare, figli che nessuno vuole».
In ogni caso, le famiglie svolsero, nella difficile situazione economica e sociale dei migranti meridionali nelle città del Nord Italia, un ruolo decisivo. Esse, infatti, portarono in dote un’organizzazione estremamente efficiente maturata nella società contadina, ovverosia la capacità di adeguarsi costantemente alla realtà contingente e pertanto di adeguare, in modo duttile e flessibile, i consumi e i bisogni dei propri membri alle risorse disponibili, mantenendo, allo stesso tempo, un serrato ritmo di lavoro. La sopravvivenza della famiglia, perciò, veniva elevata a valore assoluto, a cui tutto doveva essere subordinato, anche a costo di sacrifici, per i propri componenti, al limite della sopportazione e spingendo all’estremo l’utilizzo di ogni mezzo posseduto, sia tramite l’auto-sfruttamento, sia riducendo i propri consumi. Emblematiche sono le scene riguardanti le dinamiche familiari del celebre film di Luchino Visconti, Rocco e i suoi fratelli, dove la famiglia in quanto tale, con i propri errori ed orrori, doveva essere tutelata in ogni modo, a costo di sacrificare, nei fatti, la vita di ogni suo singolo membro. […] L’emigrazione pertanto era un modo per raggiungere un cambiamento tangibile e non semplicemente una fuga rispetto ad una condizione di miseria, tuttavia tale obiettivo si perseguiva facendo affidamento esclusivamente sulle proprie capacità e risorse o sulla solidarietà della famiglia.

Tratto da Candido N. (2017), “I Migranti Meridionali nel Nord italia, dal dopoguerra ad oggi“, pp. 119-121

Quando i migranti nel Nord Italia erano i Meridionali

Spesso la Storia si ripete, ma altrettanto spesso ci si dimentica da dove veniamo e cosa siamo stati (e siamo ancora): un popolo di migranti.

«Giuseppe, pugliese, comunista, non ha ritegni nel dire che “la vita era migliore in Germania anziché in Italia” e poi sviluppa una lunga lotta individuale, in Sesto San Giovanni, per ottenere la casa. Crudo è il suo giudizio sul “razzismo” che ritrova nelle stesse file del suo partito, fino ad avvertire che la spaccatura di classe incide anche nelle istanze di base, ed ecco che egli impiega la propria coscienza nella critica contro “i dirigenti” che sono rimasti “tutti lombardi,” ed è appunto questo modo di battersi: che lo porta alla grande comprensione finale nella quale viene rivendicata la fratellanza, l’eguaglianza» (Corea – inchiesta sugli immigrati, cit. p. 246)
Il sentimento conflittuale verso i migranti ebbe anche un’espressione politica, sebbene di poco respiro. A Torino tra il 1954 e il 1964 prese piede il MARP (Movimento per l’Autonomia Regionale Piemontese), nel cui programma si sosteneva il blocco dell’immigrazione e il rifiuto dell’integrazione permanente dei migranti, ma dopo un discreto consenso iniziale il Movimento declinò e scomparve.
Tuttavia, se da un punto di vista generale i movimenti politici esplicitamente discriminatori nei confronti dei Meridionali non ebbero fortuna, le ricadute concrete nella vita dei migranti furono diverse: a Genova, per esempio, si stabilirono criteri esplicitamente antimeridionali per l’assegnazione delle case popolari che la propaganda anti-immigrati diceva essere monopolizzate dai nuovi arrivati. Ma la realtà, come sempre, era ben lontana dai pregiudizi dell’opinione pubblica e dai luoghi comuni, poiché gli alloggi assegnati ai Meridionali non erano nemmeno il 5 % di tutte le case popolari costruite dal Comune dopo la guerra.

Tratto da Candido N. (2017), “I Migranti Meridionali nel Nord italia, dal dopoguerra ad oggi“, pp. 105-106