Da un punto di vista materiale, come abbiamo visto, le vicissitudini che ogni migrante doveva affrontare erano assai numerose e di non facile soluzione, ma le incombenze dei singoli diventavano ancora più complicate quando si trattava delle famiglie. Abitualmente la moglie e i figli raggiungevano il capofamiglia in un momento successivo, quando egli aveva acquisito una relativa sistemazione, tuttavia creare le condizioni affinché il ricongiungimento fosse possibile in tempi relativamente rapidi, era un’impresa che impegnava tutte le risorse, mentali e materiali, e tale stabilità era relativa e non sempre perdurava nel tempo. Capitava, quindi, che intere famiglie si trovassero ad abitare nelle soffitte, nelle baracche, nelle vecchie caserme, nelle pensioni, nelle “Coree”, negli abituri, in vere e proprie bidonville o, addirittura, che rimanessero senza un tetto. Diversi furono gli interventi pubblici per i contesti più degradati e maggiormente visibili ma, quasi sempre, si trattò di provvedimenti disorganici che portarono alla costruzione di centri residenziali ghettizzanti – spesso in quartieri periferici o in zone urbanistiche già degradate – e con tempi sempre molto dilatati.
Perciò, il più delle volte, le famiglie dovettero fare affidamento esclusivamente sulle proprie risorse e non sempre trovarono alloggi adeguati e dignitosi. «L’immigrato ha in genere una famiglia ed è naturale che desideri portarla con sé, di conseguenza fin dai primi giorni ci mettiamo alla ricerca di un alloggio. A Torino, come tutti sanno molto bene, gli alloggi ci sono, ma gli operai immigrati non riescono ad occuparli.
Anche i motivi di questo fatto sono da tutti risaputi: oltre a non essere graditi ai padroni di casa perché siamo Meridionali ci sono un sacco di altri problemi tra cui prezzi da strozzini, cauzioni che non sappiamo come pagare, figli che nessuno vuole».
In ogni caso, le famiglie svolsero, nella difficile situazione economica e sociale dei migranti meridionali nelle città del Nord Italia, un ruolo decisivo. Esse, infatti, portarono in dote un’organizzazione estremamente efficiente maturata nella società contadina, ovverosia la capacità di adeguarsi costantemente alla realtà contingente e pertanto di adeguare, in modo duttile e flessibile, i consumi e i bisogni dei propri membri alle risorse disponibili, mantenendo, allo stesso tempo, un serrato ritmo di lavoro. La sopravvivenza della famiglia, perciò, veniva elevata a valore assoluto, a cui tutto doveva essere subordinato, anche a costo di sacrifici, per i propri componenti, al limite della sopportazione e spingendo all’estremo l’utilizzo di ogni mezzo posseduto, sia tramite l’auto-sfruttamento, sia riducendo i propri consumi. Emblematiche sono le scene riguardanti le dinamiche familiari del celebre film di Luchino Visconti, Rocco e i suoi fratelli, dove la famiglia in quanto tale, con i propri errori ed orrori, doveva essere tutelata in ogni modo, a costo di sacrificare, nei fatti, la vita di ogni suo singolo membro. […] L’emigrazione pertanto era un modo per raggiungere un cambiamento tangibile e non semplicemente una fuga rispetto ad una condizione di miseria, tuttavia tale obiettivo si perseguiva facendo affidamento esclusivamente sulle proprie capacità e risorse o sulla solidarietà della famiglia.
Tratto da Candido N. (2017), “I Migranti Meridionali nel Nord italia, dal dopoguerra ad oggi“, pp. 119-121