Le migrazioni interne? Favorirono gli scioperi e le lotte!

«Oltre ad un aspetto soggettivo dell’influenza dei migranti meridionali nel Nord vi è un aspetto oggettivo, ovvero le conseguenze che determinarono nel mercato del lavoro. Di certo, le migrazioni Sud-Nord assecondarono una forte domanda di lavoro, ma svolsero anche un ruolo concorrenziale nei confronti della forza-lavoro locale, poiché andavano incontro, maggiormente, alle esigenze produttive. I Meridionali erano giovani e in grado di sostenere i ritmi di lavoro del sistema taylorista, più disponibili al cambiamento e meno costosi, quasi tutti partivano dalla qualifica più bassa. Dal punto di vista delle imprese e del sistema produttivo, perciò, le migrazioni erano economicamente convenienti, anche se non era altrettanto per i lavoratori, meridionali o del Nord. Si creava così un processo di sostituzione di forza locale con quella immigrata e questo è evidente, ad esempio, in Lombardia tra il 1959 e il 1968, dove il tasso di attività della popolazione locale era di circa il 40% e il tasso di attività di quella immigrata del 65-66%. 1
L’effetto che si produceva non era di semplice soddisfacimento delle necessità di domanda di lavoro in eccesso nelle regioni del Nord, ma anche di sostituzione di talune categorie di lavoratori e in determinati settori. I più colpiti furono le donne, il cui tasso di attività passò dal 29,3 % del 1959 al 23,7% del 1968, e gli anziani. In quegli anni, infatti, si assistette sia alla “mascolinizzazione”, soprattutto, nel settore industriale e dei servizi, sia all’espulsione dal mondo del lavoro dei lavoratori con più di cinquant’anni, ritenuti incapaci di reggere agli spossanti ritmi produttivi.2
Se si osserva la distribuzione settoriale degli immigrati nei medesimi anni presi in considerazione, emerge in modo chiaro l’elevata incidenza dell’immigrazione nei settori dell’industria e dei servizi, contemporaneamente, però, si assiste ad una divaricazione crescente delle qualifiche tra impiegati, dirigenti e, in misura minore, operai specializzati e operai semi-qualificati e comuni, con la conseguenza che sempre più spesso si avevano basse qualifiche a causa della situazione contrattuale e non alla reale formazione. Inevitabilmente, quindi, gli addetti alle produzioni, sebbene esercitassero funzioni complesse, ricadevano nelle qualifiche più basse, le quali avevano ormai assunto una connotazione economica e salariale perdendo il loro significato professionale specifico. Ed è a partire da queste condizioni particolari che molti scioperi e proteste avevano al centro la questione della qualifica per gli operai comuni.3
Interessanti, per comprendere le dinamiche che Interessanti, per comprendere le dinamiche che si svilupparono in quegli anni in Italia, sono le osservazioni di Alain Touraine, il quale affermava che l’arrivo di così tanti immigrati in una sola area del Paese creava le condizioni affinché costoro prendessero coscienza di rappresentare una “nuova nazione” in cammino e, con la loro presenza, di produrre il cambiamento dei modelli di relazioni sociali esistenti. I lavoratori immigrati perciò contribuirono, direttamente o indirettamente, a far emergere l’importanza dello sviluppo economico in atto e il ruolo, determinante, che essi svolgevano al suo interno.
Le migrazioni interne italiane, accompagnate da una vasta espansione della domanda di lavoro e da una forte mobilità,
invece di frenare la ripresa della combattività politica e sindacale della classe operaia, la favorirono fornendo una massa di giovani operai immigrati che, in molti casi, ebbero un ruolo di particolare rilievo negli scioperi e nelle manifestazioni politiche di piazza.4
Ciò dipese sia dalla composizione sociale e culturale degli immigrati che spesso avevano già vissuto le lotte per la terra o provenivano da zone dove le ribellioni avevano segnato la memoria collettiva, sia per un processo di adesione ai valori dominanti a livello operaio trovati nelle zone industriali di arrivo.
Essi quindi avevano partecipato non solo per l’immediato ritorno economico e di miglioramento materiale, dentro e fuori la fabbrica, ma perché lottare significava identificarsi, a tutti gli effetti, con il nuovo ambiente urbano-industriale e con la classe lavoratrice locale. Tuttavia, tale scambio, non avvenne in modo unilaterale, perché gli immigrati, da una parte, contribuirono a rilanciare e a sostenere il processo unitario avviato dai sindacati e, dall’altra, con la loro spinta radicale e dal basso innovarono profondamente le modalità di lotta e le strutture organizzative del sindacato».5

Tratto da Candido N. (2017), “I Migranti Meridionali nel Nord italia, dal dopoguerra ad oggi“, pp. 181-183

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Note

1 – Paci M. (1973), Mercato del lavoro e classi sociali in Italia: ricerche sulla composizione del proletariato, op. cit., pp. 129-131

(2) – Ibidem, pp. 132-134

(3) – Ibidem, pp. 136-137

(4) – Touraine A., Management and the Working Class, in «Daedalus», 1964, p. 312. In: Paci M. (1973), Mercato del lavoro e classi sociali in Italia: ricerche sulla composizione del proletariato, op. cit., pp. 73-74

(5) – Ibidem, pp. 74-75

Un povero che accoglie un povero in una città lontana

Nelle migrazioni italiane, avvenute in un sistema sociale dove non esistevano istituzioni pubbliche o enti privati capaci di accompagnare il percorso dei migranti, la famiglia ha avuto un ruolo preponderante e, in qualche misura, escluse anche le organizzazioni collettive più rilevanti, le quali si fermavano di fronte al confine del nucleo familiare. Cionondimeno, la solidarietà tra migranti fu capillare e salvifica per moltissimi di loro, e con l’esplosione dei movimenti sociali e delle lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta, mutò notevolmente anche il rapporto tra i Meridionali e l’immaginario collettivo della società in cui si trovarono a vivere. I giovani e i lavoratori del Sud oltre ad essere in prima linea, portarono in dote ai movimenti di emancipazione, operai e studenteschi, la radicalità derivante dallo sradicamento collettivo che avevano vissuto e la cultura di ribellione delle rivolte contadine e della storia del Mezzogiorno.
Così, Pasquale P. di Cerignola, 33 anni, descriveva l’accoglienza avuta a Milano per qualche mese da parte di un altro meridionale, un povero che accoglie un povero in una città lontana ed, inizialmente, ostile: «Appena arrivato a Milano sono andato a casa di un amico […]. Era una famiglia con otto figli e vivevano al Porto di Mare, e io appena sono arrivato sono andato in quel posto là, e ho pensato che era meglio restare a casa. Era nel ‘52, e compivo gli anni in treno quando sono venuto, facevo 26 anni. Quelli vivevano in 16 metri quadri di spazio: là si cucinava, si dormiva, tutto si faceva, e c’erano tre figlie femmine. Quella brava gente volevano tenermi ancora, ma io stesso ho capito che era impossibile. Alla sera andavo letto bianco e alla mattina mi alzavo nero, perché erano carbonai loro. Erano facchini di stazione; scaricavano il carbone, ma là dentro non avevano come lavarsi. Si lavavano la faccia, le gambe, alla buona, così; ma il carbone va nei pori e ci vuole l’acqua calda, e quando sudavano ci veniva fuori. C’era una branda di un posto e dormivano tre ragazze, 24, 21, 19; dormivano testa e piedi; e la sua madre dormiva su di una trapunta a terra vicino alle figlie. La mamma, poveretta, non dormiva la notte. Aveva cura di coprire le figlie perché faceva caldo e si scoprivano, e li c’eravamo noi uomini, e noi ci teniamo a quella cosa lì. Diceva: “Non importa, io ho cura delle ragazze, dormo di giorno mentre voi lavorate”. Poi c’era un letto matrimoniale che dormivo io, il padre, un momento che mi confondo solo a pensarli… dunque: io, il padre, tre figli maschi e il piccolo. Tutti là di traverso. Poi loro al mattino andavano allo scarico di Porta Genova» (Alasia F., Montaldi D., 1975)

Tratto da Candido N. (2017), “I Migranti Meridionali nel Nord italia, dal dopoguerra ad oggi“, pp. 123-124