Sebbene vi siano segnali positivi di crescita economica e dell’aumento delle esportazioni nell’ultimo triennio il PIL rimane inferiore del 10% al 2007, ovvero rispetto all’inizio della crisi. Un dato che sintetizza una situazione difficile e contraddittoria. Difficile, perché l’economia del Sud ha sofferto maggiormente la crisi rispetto al Centro Nord; contraddittoria perché negli ultimi anni, la crescita è stata uguale o superiore al resto d’Italia. In questo quadro, il dato della disoccupazione nel Mezzogiorno (-310 mila unità rispetto al 2008), in rapporto al Centro Nord (+242 mila unità rispetto al 2008), rivela tutta la drammaticità della situazione sociale. La povertà e lo svuotamento del Meridione, pertanto, diventano conseguenze inevitabili. I poveri nel 2017 arrivano all’11,4% della popolazione (1,6 in più del 2016) e l’emigrazione (verso il Nord Italia o l’estero) rimane una costante negativa che, ormai regolarmente, impoverisce il Sud di giovani e di “intelligenze” vitali per lo sviluppo di qualsiasi territorio.

Il saldo migratorio tra il 2002 e il 2016 è impressionante: 783.511, di cui i laureati rappresentano il 27,9% e i giovani il 72,1%. In 14 anni l’equivalente degli abitanti di Napoli hanno lasciato il Sud, senza contare il pendolarismo e le tante forme di emigrazione non rilevate dalle statistiche.

E in futuro sarà ancora peggio. Se, infatti, accostiamo a questi dati quelli delle nascite non si può che constatare che il Mezzogiorno sta morendo. Una proiezione demografica dei trend attuali evidenzia che nel 2065 ci vivranno 5.658.382 persone in meno, compensato solo in piccola parte dal saldo migratorio. Un’ecatombe nazionale che colpirà soprattutto il Meridione e che forse ci dovrebbe indurre a vedere con altri occhi gli stranieri che vogliono venire in Italia e nel Mezzogiorno.

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Da un punto di vista materiale, come abbiamo visto, le vicissitudini che ogni migrante doveva affrontare erano assai numerose e di non facile soluzione, ma le incombenze dei singoli diventavano ancora più complicate quando si trattava delle famiglie. Abitualmente la moglie e i figli raggiungevano il capofamiglia in un momento successivo, quando egli aveva acquisito una relativa sistemazione, tuttavia creare le condizioni affinché il ricongiungimento fosse possibile in tempi relativamente rapidi, era un’impresa che impegnava tutte le risorse, mentali e materiali, e tale stabilità era relativa e non sempre perdurava nel tempo. Capitava, quindi, che intere famiglie si trovassero ad abitare nelle soffitte, nelle baracche, nelle vecchie caserme, nelle pensioni, nelle “Coree”, negli abituri, in vere e proprie bidonville o, addirittura, che rimanessero senza un tetto. Diversi furono gli interventi pubblici per i contesti più degradati e maggiormente visibili ma, quasi sempre, si trattò di provvedimenti disorganici che portarono alla costruzione di centri residenziali ghettizzanti – spesso in quartieri periferici o in zone urbanistiche già degradate – e con tempi sempre molto dilatati. 


